La dura contestazione al provvedimento del ministro della Pubblica Istruzione, Maristella Gelmini, da parte di una componente del mondo della scuola e dell’università spalleggiata dall’opposizione ha prodotto il suo frutto avvelenato, la violenza tra le opposte fazioni. Quando pareva che la lunga guerra civile tra italiani fosse definitivamente archiviata e relegata alle discussioni tra specialisti e storici, ecco di nuovo spuntare vecchi fantasmi. Le vittime spesso ignare e inconsapevoli di tutto ciò sono i ragazzi, pettinati e adulati da alcuni quotidiani in cerca di nuovi lettori e da partiti in cerca di linfa vitale e disposti per questo a tutto, anche a riesumare mostri del passato come la superiorità culturale e morale di una parte del paese sull’altra. Ricordiamolo quindi ai ragazzi che occupano e protestano, sicuramente in buona fede, ma spesso e purtroppo sulla base di notizie distorte o di vere e proprie panzane ripetute in continuazione al fine di farle sembrare vere, che la violenza seguita al movimento del ’68 ha portato l’Italia sul baratro del terrorismo degli anni di piombo e ha reso impossibile, per il clima prodottosi, ogni riforma del sistema politico basata su consensi bipartisan.
Urge disinnescare la nuova potenziale minaccia. La crisi internazionale incombente, i problemi arretrati e le tensioni che si produrranno nei prossimi mesi possono generare un cocktail esplosivo e forse letale. E’ necessario che i leader politici assumano le proprie responsabilità e che i ragazzi evitino di trasformarsi in burattini, ma diventino i protagonisti del loro futuro. Il terreno di una possibile intesa - una condivisione d’interessi comuni sicuramente temporanea e parziale poiché non c’è la pretesa che arrivino a pensarla alla stessa maniera su passato e futuro - va trovata sul terreno concreto dei problemi attuali. Vogliono, gli studenti che si oppongono al decreto Gelmini, il perpetuarsi di una scuola e di una università fallimentare? Vogliono difendere i privilegi e le porcherie che da decenni caratterizzano l’accademia? Nessuno lo crede.
La necessaria riforma dell’università e della scuola di Stato dovrebbe essere l’obiettivo comune agli studenti, ma anche a tutti coloro che auspicano un reale cambiamento. Una rivoluzione copernicana. Non più un sistema educativo pensato in funzione dei suoi dipendenti, docenti e non, ma sulle esigenze dei fruitori e dei contribuenti, gli studenti e le loro famiglie. Di più, un accordo su queste basi e una contestazione comune degli studenti potrebbe produrre un risultato ancora più rivoluzionario, quel cambiamento generazionale e complessivo che solo forse potrebbe avviare il paese a una stagione di riforme profonde e feconde, dal sistema politico a quello economico. Infatti, i mali dell’Università non sono avulsi da quelli generali del paese. Un sindacato corporativo che difende esclusivamente gli insider e abbandona a se stessi coloro che non rientrano nelle categorie del lavoro dipendente e subordinato, in concreto le generazioni dei ventenni, trentenni e molti quarantenni. Una casta d’intoccabili e privilegiati, i professori ordinari in questo caso, strapagati non per meriti conseguiti ma per anzianità. Lavoratori dipendenti iperprotetti, non sottoposti ad alcun controllo sulla qualità del loro lavoro, anzi, la maggior parte di loro si limita a fare lobby per “aggiustare” i concorsi e non fa ricerca da quando ha acquisito la posizione a vita. Un dato eclatante è il rapporto tra lo stipendio degli ordinari e quello dei ricercatori in Italia e nei vituperati Stati Uniti. Da noi, paese simbolo e guida dei diritti degli ultimi, è di 4.5 a 1, nel regno delle disuguaglianze e dello sfruttamento è di 1.5 a 1. Noi strapaghiamo l’anzianità e il privilegio, loro la ricerca. Vogliono, gli studenti, continuare ad avere il sistema feudale che governa la ricerca? L’università truccata descritta dal libro del professor Roberto Perotti, docente alla Columbia University di New York e alla Bocconi di Milano, è la realtà mentre molte delle contestazioni che hanno portato gli studenti in piazza sono semplici e vecchi slogan che si tramandano di generazione in generazione. Le inchieste sulle frodi nei concorsi cominciano a farsi, sono più di cento gli indagati, ma l’impunità resta perché finora nessuno dei vincitori è stato rimosso e nessuno dei colpevoli ha mai pagato.
Ecco un possibile terreno di lotta: bloccare l’attuale sistema di reclutamento dei docenti basato sui concorsi truccati. Sono un costo enorme, economico e morale, che non è più sostenibile. Nei prossimi mesi saranno circa settemila i concorsi di questo tipo e per posti a tempo indeterminato, il che significa che peseranno a vita sul portafoglio, e non solo, dei contribuenti.
La contestazione al ministro Gelmini è funzionale anche ai rettori che così potranno evitare di dare giustificazioni circa lo stato fallimentare degli atenei italiani. Se più del 90% delle risorse è assorbito dagli stipendi, che spazio può restare alla ricerca? Nessuno. Ecco perché il taglio dei fondi, come detto anche da Umberto Eco, docente non sospettabile di simpatie berlusconiane, non colpisce gli studenti e i ricercatori ma i baroni.
L’Università di massa e gratuita italiana, come dimostra nel suo libro Perotti, non è assolutamente egualitaria e la disuguaglianza non è certo a favore delle classi più deboli. Al contrario, il confronto con uno degli stereotipi preferiti dei mestatori e dei burattinai della protesta, gli Stati Uniti, è disarmante: da noi solo l’8% dei laureati proviene dalle fasce meno abbienti contro il 15% degli States. Grazie a uno dei pilastri del malfunzionamento della scuola italiana di Stato, il valore legale del titolo di studio, una laurea ottenuta in un’università seria dove si studia molto e si fa ricerca equivale a quella ottenuta in uno dei tanti atenei dispensatori di corsi inutili e diplomi facili. Il risultato è la svalutazione ulteriore del titolo conseguito e dei sacrifici fatti dalle famiglie più povere per mandare i figli a scuola.
L’invito è a riflettere sui problemi concreti e sulle soluzioni non più procrastinabili. Al decreto Gelmini deve seguire una riforma radicale del sistema scolastico e gli studenti devono essere i primi a volerlo, nel proprio interesse. Abolizione del valore legale del titolo di studio e concorrenza tra gli atenei per offrire ai giovani scelte basate sulla qualità dell’insegnamento: contratti a termine per i professori con controlli periodici sulla qualità del lavoro e della ricerca svolta, ma soprattutto cancellare l’infamia dell’accesso alle carriere tramite i concorsi truccati. Non è solo un danno economico e un reato, è anche una forma subdola di sfruttamento del lavoro altrui ampiamente diffusa. Si approfitta dell’ingenuità dei giovani dottorandi e ricercatori che svolgono di fatto le ricerche che il docente, impegnato in ben più “nobili” attività di lobby, non ha tempo né voglia di fare. Ma si arriva anche i casi di ricercatori autisti o che vanno a fare le spesa per chi controlla il loro futuro. Servaggio e feudalità vergognose. Alla fine, dato l’alto numero di pretendenti alle cattedre, molti aspiranti sprecano il proprio talento, e buona parte della loro vita, in attesa del concorso pilotato che mai arriverà.